E’ possibile parlare di salute mentale nelle scuole?
Famiglie in Rete crede fermamente di sì e ha partecipato - insieme all’Associazione Amici di salvataggio OdV Alessandra Appiano (www.amicidisalvataggio.it) ad un pomeriggio nel Liceo Classico A.Manzoni di Milano. E’ interessante il progetto che quest’anno la scuola ha pensato per i PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l'orientamento) dei propri ragazzi, dedicato ai diversi aspetti dell’inclusione (per chi fosse curioso di leggerlo, si trova qui), e ancora più interessante il fatto che, oltre a quella culturale, di genere, della disabilità si sia scelto di parlare anche di inclusione del disagio psichico.
Il pomeriggio si è aperto con la visione di un documentario sulla storia di Alessandra Appiano, scrittrice, giornalista, autrice televisiva, attivista nel volontariato, morta suicida a 39 anni mentre era ricoverata in un ospedale milanese per una grave depressione. I ragazzi hanno poi dialogato con l’autore del documentario e marito di Alessandra Appiano, una psichiatra e una socia di Famiglie in Rete.
Nei giorni successivi, un gruppo di studenti ha intervistato la nostra socia, per approfondire i temi trattati. Ecco il risultato del loro lavoro.
“Viviamo sentendoci come marziani, e non è giusto”
In generale i disturbi di personalità sono caratterizzati da un modo persistente di pensare, percepire, reagire e relazionarsi. Ciò spesso causa un disagio significativo. I disturbi di personalità variano nelle loro manifestazioni, ma si ritiene che tutti siano causati da una combinazione di fattori genetici e ambientali. Nonostante ciò, la ricerca e la conoscenza su determinati disturbi è ancora molto indietro, questo ha da sempre portato ad un disinteresse della società di fronte a certe situazioni, e, di conseguenza ad una progressiva esclusione dei soggetti affetti dalla vita comune.
Ancora oggi la salute mentale rimane, purtroppo, un argomento di cui si parla troppo poco e, secondo Maria, madre di Giacomo, un ragazzo che soffre del disturbo di personalità borderline a basso funzionamento, soprattutto nel sud Italia si tende a stigmatizzare il problema. Il disturbo ricade poi sulla famiglia, per questo Maria ha creato, all’interno dell’associazione nazionale “Famiglie in rete” (nata proprio nel sud Italia, in Sicilia), un gruppo di persone, una cinquantina in tutta Italia, che all’interno della loro famiglia vivono le stesse dinamiche provocate dallo stesso disturbo, poco considerato e lasciato invece molto da parte dall’istituzione, così da sentirsi meno “marziani” insieme in modo da unire tutte le voci per farsi ascoltare. È vero che ultimamente la mole di informazioni riguardanti questo tema sta aumentando, ma non viene divulgata nel modo giusto: alle notizie che si basano su fonti scientifiche si affiancano quelle false, ingigantite, che producono l’effetto contrario. A volte, invece, certi giornali preferiscono proprio evitare temi così delicati, per non rischiare di esporsi troppo o venire fraintesi. Spesso i disturbi della personalità vengono associati alla fragilità alla debolezza del soggetto, come se colui che ne soffre non fosse altro che un soggetto fragile, che si lascia sopraffare eccessivamente dalle proprie emozioni, così le situazioni vengono banalizzate, e non si conferisce l’adeguato supporto. Maria ci spiega inoltre l’importanza della psicoterapia, che non prevede solo psicofarmaci, che frequentemente impossibilitano chi li prende a svolgere anche solo semplici azioni, ma che aiuta il soggetto ad imparare a relazionarsi con la società, senza cambiare in modo forzato la propria essenza.
Come detto, i pregiudizi sui problemi di salute mentale nel sud Italia sono più forti, talmente forti che tante famiglie scelgono di non raccontare la loro situazione e restano completamente isolate, non chiedendo aiuto a nessuno pur di non far emergere questo problema. Nel nord Italia invece leggermente meno, ma ci sono sicuramente per quanto riguarda i disturbi che “disturbano” la quiete pubblica, che danno fastidio: per esempio se una ragazza è anoressica si prova pena, solidarietà per lei e per la famiglia, se un ragazzo ha un disturbo di personalità per cui distrugge macchine per strada, lo si considera un delinquente. Un altro pregiudizio si cui si parla pochissimo è quello sulle famiglie: i genitori vengono individuati come causa dei disturbi dei loro figli, quando è evidente che, quando in una ragazza o in un ragazzo è presente un disturbo della personalità, ciò non può dipendere solo dall’ambiente che lo circonda. Dunque, oltre che la sofferenza per avere un figlio che ha una grave patologia si deve anche sopportare il giudizio negativo delle famiglie che stanno intorno. Basta pensare alle parole che vengono usate quando questi bambini fin da piccoli manifestano problemi e si comportano male ai giardinetti o a scuola. “Maleducato” è l’appellativo usato più frequentemente per identificare i bambini più agitati, ma, come dice Maria, “maleducato” non è un giudizio sul bambino, ma sui genitori, poiché per maleducato si intende educato male. Ma in realtà quest’ultima non è la causa più rilevante, ma uno dei componenti dell’ambiente circostante che contribuiscono in egual misura, come persino il catechismo, l’allenatore ecc…
Maria ci racconta inoltre come le persone intorno siano sì solidali, ma facciano fatica a capire le vite di coloro che hanno questo tipo di disturbi in quanto molto differenti: si fa un’enorme fatica a mantenere le amicizie o in generale rapporti di ogni genere. Ci si tende a isolare proprio per questo, ma non perché le persone ti stigmatizzino, piuttosto perché hanno interessi e problemi troppo distanti. «Non ci sentiamo giudicati dalle persone che ci sono vicine, ma ciò che succede è che finché non vivi queste dinamiche non le puoi capire, ti sembra tutto incredibile, e per forza di cose ci si allontana, si fa fatica a frequentare persone che hanno problemi così distanti dai tuoi». Dunque, queste patologie ricadono enormemente sul nucleo familiare, compresi i fratelli o il cane: Maria spiega come anche il suo cane abbia dei momenti di ansia o di paura che lo portano a nascondersi sotto il tavolo per ore. Chiunque dunque ne risente.
Proprio per tale motivo Maria ha preso la coraggiosa decisione di creare una rete di famiglie che hanno esattamente il tipo di problema che lei stessa vive nel suo nucleo famigliare, in quanto un tipo di casistica particolarmente difficile da trattare e particolarmente abbandonata; quindi, dove ci si sente “marziani” a tutti gli effetti. All’inizio erano solo un gruppo di whatsapp in cui scambiarsi informazioni che interessassero proprio queste tematiche, poi hanno deciso di unirsi a un’associazione già esistente. In Italia, infatti, le associazioni per la salute mentale sono tantissime, molte centinaia, spesso piccole e molto locali. In questo modo però si tende a perdere un po’ di forza perché certe decisioni avvengono su tavoli dove per incidere devi essere più grosso. Pertanto, hanno scelto di non fare un’associazione a parte, ma di unirsi a “Famiglie in rete” che ha avuto l’ottima idea di fare dei gruppi tematici, cioè di formare dei piccoli gruppi di soci, in tutto seicento, che sono interessati a un tema specifico all’interno della salute mentale e che lo portano avanti. Dunque, il gruppo Maria è proprio uno di questi. Oltre a supportarsi a vicenda tentano nel loro piccolo di incidere, prendendo contatti e posizioni con le istituzioni a livello regionale, statale e nazionale. Quest’anno a Roma c’è stato il “Mental Health Global Forum” e Maria ha partecipato come rappresentante di quest’associazione.
Oltre a ciò lo “Famiglie in rete” ha due filoni di obiettivi principali: far conoscere i problemi della salute mentale e abbattere lo stigma e chiedere alle istituzioni di curare in modo più appropriato le patologie perché, mentre altre branchie della salute sono molto avanti su quella che viene definita la medicina “evidence based” (la medicina basata su prove scientifiche), nei vari centri di salute mentale (in Lombardia CPS) le linee guida sono poco seguite. Si battono perciò affinché la qualità delle prestazioni che vengono erogate nel campo della salute mentale sia analoga a quella degli altri campi medici. Altri progetti attuali sono con delle università: con quella di Bologna, ad esempio, sui temi dei maltrattamenti in famiglia, cioè i pazienti che a causa dei loro problemi di salute mentale hanno degli atteggiamenti aggressivi o pesanti da gestire in casa; con quella di Parma, invece, stanno lavorando su un premio di laurea per una tesi su questi temi.
Ma adesso concentriamoci su una domanda fondamentale: per quale motivo non si parla di queste problematiche? Le motivazioni, dice Maria, sono varie e dipendono dal contesto in cui ci troviamo. A scuola per esempio molti professori ritengono queste tematiche non trattabili con ragazzi così giovani in quanto rischioso e dannoso per chi ha già una sua fragilità intrinseca che potrebbe sfociare in una malattia mentale. C’è un altro gruppo di persone che invece ne fanno una specie di battaglia politica: prima degli anni 70, prima della riforma del neurologo e psichiatra di Trieste Franco Basaglia, c’erano anche in Italia i manicomi, posti dove venivano rinchiuse le persone con disturbi psichici per tenerle lontane dalla società in quanto considerate pericolose o disturbanti. Il problema è che questi ultimi non erano attrezzati e organizzati per curarle, ma erano semplicemente dei “contenitori” per tenere tranquillo il resto della società. Poi Basaglia è riuscito a farne una battaglia fino a far sì che venisse approvata una legge in Parlamento, che in Italia chiudeva tutti i manicomi (legge 180 del 1978). L’idea, che Maria definisce “giustissima” e “spettacolare”, era di portare queste persone a essere curate sul territorio, quindi molto vicine a dove abitavano, per poter far sì che tutta la comunità si facesse un po’ carica della cura di questi: infatti tra le varie tecniche di cura non ci sono solo quelle farmacologiche o psicoterapeutiche, ma anche sociali. Il problema è che non è stata completamente portata a termine; pertanto, queste persone sono uscite dai manicomi e i territori che dovevano accoglierli non si sono strutturati abbastanza.
«Quando noi tentiamo di dire che Basaglia aveva ragione sappiamo che quello che lui aveva nella testa non è ancora successo e dobbiamo lottare perché succeda, c’è tutto un filone politico, sia tra gli operatori della salute mentale, sia tra i famigliari, sia tra i politici che, invece si sedersi e discutere di queste cose, tenta di soffocare queste voci perché hanno paura che queste vengano strumentalizzate da chi vorrebbe riaprire i manicomi».
Anche i giornali purtroppo fanno molta fatica a trattare questi argomenti perché non vogliono imbarcarsi in un tema che è molto complesso da affrontare. Maria ci racconta di una notizia recente discussa però pochissimo in quanto riguardante un uomo in cura nei centri di salute mentale da anni. Una volta uscito dall’ospedale con indosso ancora il braccialetto identificativo si era recato a Linate per imbarcarsi verso il Marocco, suo paese di origine, ma, essendo senza documenti non lo hanno fatto imbarcare sull’aereo e ha dato di matto. Lo hanno condotto in infermeria e gli hanno dato le benzodiazepine, secondo il loro protocollo, senza sapere quali farmaci gli erano stati somministrati in ospedale poco prima. Dopodiché ha preso la macchina e si è diretto verso l’autostrada, schiantandosi però al casello contro un’altra macchina che era ferma per pagare il pedaggio e uccidendo le due donne madri che ci si trovavano all’interno. La possibilità di fermarlo c’era, ma nessuno lo ha fatto ed è accaduta una tragedia.
Altra grandissima problematica è il sistema giudiziario italiano: quando si commette un reato e si ha un problema di salute mentale, c’è un perito del tribunale che valuta la tua “capacità di intendere e volere” nel momento del reato. Tale perito può affermare che l’accusato era totalmente o parzialmente incapace di intendere e volere o capace di intendere e volere. Nel primo caso c’è assoluzione, ma nel caso la persona venga reputata socialmente pericolosa viene inviata per un progetto di cura in strutture speciali chiamate REMS, ovvero “Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, dove dovrebbe rimanere per circa 6 mesi prima di proseguire il progetto sul territorio. Purtroppo, le regioni non sono in grado di organizzare con la giusta attenzione queste strutture e coloro che avrebbero dovuto risiederci per sei mesi alla fine ci rimangono per anni, intasandole. Nel secondo caso, c’è uno sconto di pena ed è questo il caso del figlio di Maria, Giacomo. In teoria in carcere Giacomo e tutti i ragazzi come lui dovrebbero essere curati, esattamente come Matteo Messina Denaro malato di tumore, ma così non accade. Di nuovo il carcere, così come il territorio, non è attrezzato a curare questi pazienti perché le cure sono complesse e costose e pertanto vengono abbandonati. «Le carceri diventano la discarica dei servizi mentali».
È fondamentale sottolineare che l’articolo 32 della Costituzione italiana afferma che tutti hanno il diritto di essere sottoposti a cure, ma a nessuno possono essere imposte. In realtà per chi è affetto da problemi di salute mentale questi due diritti sono difficili da mettere insieme. Questo perché chi è malato a volte non riesce a portare sé stesso a curarsi, ma ciò non significa che vada abbandonato, la Costituzione non sottoscrive questo. Una delle tecniche che potrebbero essere sfruttate per incentivarli sono proprio i procedimenti penali: psicoterapia invece di reclusione. Un caso che ci racconta Maria è di un ragazzo di 21 anni, figlio di alcuni suoi amici, che, dopo essere stato accusato di tentato omicidio, ha preso la decisione di prendere parte a un progetto psicoterapeutico, pagato però dalla sua stessa famiglia, e piano piano sta migliorando.
Lo stato purtroppo non è in grado di gestire nella maniera giusta i soldi: un altro tema difatti su cui si batte “Famiglie in rete” è la misura della qualità, la valutazione della qualità. Tutti i lavori del mondo hanno questa valutazione, ma non in salute mentale.
Oltre alla sanità pubblica che con il pretesto di non avere sufficienti mezzi non investe sulle patologie mentali, anche quella privata prende la medesima strada in quanto sceglie quello che è economicamente vantaggioso è questo non è il caso della salute mentale.
Nonostante tutte queste problematiche, perché Maria continua a lottare perché la situazione cambi? «Sono stati chiusi i manicomi, ma non è stata creata sul territorio l’alternativa che aveva nella testa Basaglia: è per questo che investo volentieri sui giovani, casomai riesca a nascere una nuova generazione di veri “basagliani”». Maria ci racconta anche la meravigliosa storia di una collaboratrice di Basaglia è riuscita a salvare la vita di un uomo. Dopo aver aperto le porte dei manicomi a Trieste per sperimentare in piccolo la sua idea, un uomo era stato talmente scioccato dal trattamento subito che non voleva assolutamente più avere a che fare con cure o terapie. Hanno tentato in tutti i modi per sette anni di avvicinarlo, ma senza riuscire. Avevano messo in piedi una psicoterapia di gruppo durante una passeggiata in montagna e assunsero quest’uomo, che era esperto di montagna, come guida. Piano piano si è inserito nel gruppo e ha svolto la sua psicoterapia: dunque se c’è volontà da parte delle persone si può fare davvero qualcosa.
Mirea Carrone, Carlotta Colnago, Sofia Passarelli, Tommaso Ponzini, 4^C