Come referente di questo gruppo, dopo aver raccontato i miei dieci anni di lotta nel libro “Io, combatto”, desidero in questa sede lasciare invece spazio alle testimonianze dei genitori che mi hanno contattata, a tratti molto simili alla storia di mio figlio Giacomo. Ne ho ricevute a decine, “sos” disperati lanciati da madri, compagne, alcuni papà. A volte si tratta di esperienze con tratti positivi, come l’indicazione di una struttura o di un metodo a parer loro fruttuoso, in altri casi resta solo il senso di fallimento e il timore che tutto finisca in tragedia. Qui vorrei far convergere tutto ciò, mettendolo a disposizione di chi, in qualità di familiare di paziente a doppia diagnosi, sente di avere solo il deserto intorno.
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Ho piacere di condividere la prima, preziosa testimonianza ricevuta da un papà, perchè il nostro gruppo, sebbene sia costituito soprattutto da mamme, è ovviamente aperto a tutti I familiari. Ecco quindi il contributo di papà Paolo:
LA DIMENSIONE PSICHICA, QUESTA SCONOSCIUTA
Raccontare l’esperienza di mio figlio Jacopo in poche righe è semplicemente impossibile. Sto cercando di farlo da un anno a questa parte, cercando di ricostruire i fatti di circa cinque anni della sua… della nostra vita, in modo da avere una narrazione da poter condividere con lui e con mia figlia, per poterci confrontare e formulare una interpretazione il più possibile condivisa, di eventi che hanno travolto la nostra famiglia.
Mi limito qui a formalizzare tre fasi che hanno caratterizzato l’esperienza di Jacopo, in modo molto sintetico.
La dipendenza. A quindici anni Jacopo è vittima di un episodio di bullismo e alla mamma viene diagnosticato un tumore che inizia a combattere con impegno. Eravamo già separati da poco ma i nostri rapporti erano rimasti ottimi e io la aiuto nelle cure. La sorella si fidanza e dopo poco rimarrà incinta. Iniziano i problemi scolastici a cui segue un consumo sempre più costante di marijuana, che nel giro di due anni diverrà cocaina. Jacopo progressivamente abbandona tutte le attività (sport e musica), viene bocciato e inizia a frequentare giri finalizzati solo al consumo di droga, con piccole forme di spaccio, in modo pericolosamente limitrofo ad ambienti più loschi e pericolosi. Neanche portarlo a vivere dalla nonna servirà a nulla.
L’arresto. A poco meno di diciotto anni Jacopo viene arrestato per consumo e spaccio di stupefacenti in associazione con due amici. Inizia un calvario fatto di nove mesi e mezzo presso una casa famiglia dove peggiora vieppiù la sua condizione; sei mesi di una comunità contro le tossicodipendenze fuori Roma, teoricamente molto buona ma da cui scappa due volte fino a non venire riammesso; figure sinistre in vari ambiti-chiave (l’assistente sociale su tutti, che siamo riusciti a incontrare due volte in tre anni), totalmente inadeguate a gestire la situazione. Fino all’affidamento del ragazzo in pieno craving a me, per un periodo di riflessione. Durante questo periodo (che durerà due mesi) Jacopo, travolto dall’astinenza, si getterà dalla finestra del secondo piano e dovrà essere operato per la ricomposizione della frattura, ma soprattutto, tenterà lo scippo di una anziana signora e verrà riarrestato (stavolta dal Tribunale ordinario perché è maggiorenne) con condanna a un anno e mezzo, da scontare preferibilmente in una comunità (inizialmente ai domiciliari con me che gli facevo da infermiere, modulando farmaci per poterlo sedare, visto il lunghissimo craving). Questa fase si chiude con un colpo di scena: dopo anni a vagare nel buio, abbiamo scoperto che il problema non erano solo le droghe. Il Tribunale predispone una valutazione psicodiagnostica e a Jacopo viene diagnosticata, oltre alla dipendenza da sostanze stupefacenti, anche una sindrome border line.
Fine d’inizio. Così lo chiamo il fatto che da poco più di un anno Jacopo è stato accolto in una comunità specializzata in ragazzi in doppia diagnosi e in particolare affetti da sindrome border line. Si tratta di una comunità dedicata a un medico psichiatra inglese che ha elaborato un metodo di cura dei ragazzi con tali disfunzionalità. Una delle differenze fondamentali rispetto alle altre esperienze è che per 5/6 ore al giorno lavorano su sé stessi, in gruppi. Dopo diciotto mesi Jacopo terminerà il suo percorso e inizierà un’altra storia, tutta da scrivere. Per ora ci accontentiamo del fatto che sta molto meglio, nonostante la recente, dolorosa, scomparsa della mamma.
Una delle cose che più mi ha colpito di questa drammatica esperienza è stato il fatto che Jacopo ha ricevuto un trattamento, da parte di tutte le agenzie incontrate durante il percorso, che non ha mai previsto la possibilità che esistessero problemi del genere, nonostante fosse nota a tutti la familiarità del ragazzo con fenomeni psicotici (mio padre era uno schizofrenico paranoide). Subito ci si è affrettati a giudicare, sentenziare, e a mandarlo in strutture regolarmente inadeguate alla sua condizione.
Mi limito a questi brevi cenni per motivi di brevità.
Avendo ascoltato alcune storie, mi rendo conto di non essere tra le persone più sfortunate, alle quali, genitori, familiari, amici e ragazzi, va il mio caloroso abbraccio solidale.
Paolo
La seconda è la storia di una mamma e suo figlio, spesso le dinamiche madre e figlio maschio sono complicatissime .Lei si chiama Cristiana e roprio ieri mi ha riferito che suo figlio per l’ennesima volta si è allontanato dalla comunità; siamo in molte a sapere come ci si sente in questi momenti: lei è distrutta, annientata, nonostante questo, scrive:
Sono una mamma distrutta che lotta per salvare suo figlio da 11 anni.
Mio figlio M. è un ragazzo di 26 anni, doppia diagnosi, disturbo borderline, bipolarismo con sindrome d’abbandono, aggravato dall’uso di dipendenze, cocaina e nell’ultimo anno anche gioco.
Il sistema, in questo paese non riconosce la dipendenza come una malattia grave, molto più grave di un tumore, forse curabile. Perché la persona non ragiona: tu gli parli ed è come se parlassi alla droga.
La droga è il cancro di mio figlio.
M. è stato adottato a 2 anni, un Angelo che ha completato la nostra famiglia, ha riscaldato i nostri cuori, portando tanta felicità, gioia e amore. Il dono più grande che potessimo ricevere.
M. è un ragazzo molto bello, buono, fragilissimo. Ma di certo non è nato sotto una buona stella. La vita non gli ha fatto sconti.
Ha sempre avuto il sorriso sul suo viso, ha praticato vari sport a livello agonistico e suona benissimo il pianoforte. Un ragazzo legatissimo a noi, a me, anche troppo. Affettuosissimo e dolcissimo.
In secondo liceo, un rinomato liceo privato di Corso Trieste a Roma, è arrivato un nuovo compagno.
La FINE.
Ha iniziato con le canne, tante tante canne, poi il passo alla cocaina è stato breve.
In questi anni le abbiamo provate tutte, cliniche in Italia, cliniche all’estero, comunità, percorsi specialisti, seguito privatamente da uno psichiatra, luminare della materia, che ormai lo considera un figlio. Da lui abbiamo avuto un aiuto costante.
Lo abbiamo mandato via di casa, come suggeriscono gli esperti, è stato peggio.
Lo abbiamo riaccolto e fatto tutto il possibile.
M. vuole uscirne, fare una vita normale, quella dei suoi coetanei, soffre immensamente, ma poi è la droga a parlare.
Entra in comunità con tutte le intenzioni ma poi non resiste e va via.
Da poco abbiamo cambiato anche città, lo abbiamo fatto per lui, e per fortuna qui i servizi sociali, CSM e Serd, si sono resi subito disponibili e comprensivi, cosa che non è stato per il Serd di Roma, un’assistente sociale fredda, poco comprensiva e non disponibile, per lei le sue fughe equivalevano a non volersi curare.
Anni di discussioni con una persona che a mio avviso dovrebbe svolgere il suo lavoro come una missione, così non è stato.
È questo il nodo, la stortura del sistema che non riconosce la dipendenza come una malattia. Un tossicodipendente non viene trattato come un malato, e invece lo è , eccome. E gli permette di uscire da ogni luogo anche se gravissimo senza considerare anche il disturbo psichiatrico.
Curano solo i casi semplici, questo lo sanno fare tutti.
Ecco che poi piangiamo le varie “Pamela Mastropietro” della situazione.
Ma siamo solo noi a piangere i nostri figli.
Un paio di anni fa sono arrivata a denunciarlo per possesso di sostanze, non so come ci sia riuscita, ma la paura di trovarlo morto era più grande.
È stato condannato ad 1 anno 8 mesi di clinica e comunità.
C’è stato 3 mesi e poi è scappato.
Evasione.
Il magistrato di turno, a mio avviso senza leggere il fascicolo contenente tutta la documentazione medica, lo ha mandato nel carcere di Rebibbia, luogo principe della corruzione, invece che in una Rems.
Guardie e infermieri che portano droga e telefonini.
Non siamo riusciti a far commutare le pena in comunità, in quanto il Serd del carcere non ha saputo lavorare a dovere.
Io ero lì tutti i giorni.
Quindi quando è uscito, non era stato curato ma si era sempre drogato.
Logicamente ha un amministratore di sostegno e relativo giudice tutelare.
È gravissimo, qui i vari professionisti lo hanno capito e lo stanno aiutando, ma oggi 20 febbraio 2023 è uscito ancora liberamente da una comunità. Ma per fortuna i servizi continueranno ad aiutarlo, hanno capito. Ma io non so dove sia.
Non sapere nulla di un figlio è ciò che di peggio si possa provare.
Anche io mi sono ammalata, la droga mi è diventata un’ossessione, esco di notte, vado nei luoghi di spaccio, ho fatto tante segnalazioni e denunce, qualcuno è stato anche arrestato.
Ma solo i blitz della polizia fanno notizia, non si parla mai dei ragazzi che si ammalano.
Il senso della mia testimonianza è quello di avere l’OBBLIGO DI CURA, almeno per i casi gravissimi, comprovati da documentazione medica, come mio figlio.
D’altro canto “ti dicono le cure sono volontarie e se suo figlio non si vuole curare è perché preferisce drogarsi……”
Lui si vuole curare, ma nel momento peggiore dell’astinenza, il craving, lui, anche per la sua patologia psichiatrica, ha un blackout, perde il lume e scappa.
Siamo abbandonati dalle istituzioni, ho perfino chiamato il ministro della salute.
Si parla tanto di tutela della salute e poi? Non si fa nulla e questi ragazzi si aggravano ed arrivano a morire.
Ora non so quando e se M. si farà sentire, quindi vivremo nell’ansia e nella paura.
Lo sai per la strada, solo, fragile e il silenzio della notte diventa un rumore assordante.
Lui è tutta la mia vita, dal primo momento è entrato nella mia anima, e lì è sempre.
Una paura che ci accompagna da 11 anni che deve finire.
Bisogna lottare per risolvere il problema della DIFFICOLTA' DI ADESIONE alla cura, per delle COMUNITÀ più sicure, altrimenti non cambierà mai nulla e i nostri figli non saranno aiutati e le famiglie distrutte.
Grazie Cristiana